L’incontro con il fenomeno dell’allucinazione è un’esperienza da cui e per cui si riesce a cogliere lo sprofondare nell’abisso dell’umano, fenomeno, questo, presente in alcune condizioni psicopatologiche, entro cui il soggetto sperimenta un rapporto “altro” con il mondo.
Essere in presenza di una persona che è presso l’allucinazione diventa un’esperienza a dir poco sconvolgente, è come se l’intera atmosfera cambiasse, cambia il modo attraverso cui ci si incontra. Si fa esperienza del nulla che prende forma; la paura è quella situazione emotiva che meglio rappresenta lo stato d’animo di chi osserva e forse sarebbe meglio parlare di terrore, data l’impossibilità di poter vedere ciò che sta accadendo: è come essere in una stanza buia in cui sta accadendo qualcosa, come ad un concerto senza audio, come nutrirsi attraverso le flebo, come essere in un letamaio senza avvertirne la nausea, quindi non potendo condividere ciò che l’altro sta esperendo, ma nonostante ciò il pensiero si muove, lo stato d’animo si inquieta, quindi qualcosa lo si avverte; sembra quasi di non esser lì dove è l’altro ma allo stesso tempo di osservare qualcosa di assurdo, di non decifrabile, di non codificabile, finendo per incontrare l’angoscia che più che essere la comunanza che contraddistingue questo tipo di incontro è quello che spesso induce ad allontanarci da tale presso; lo sforzo è immane per restare lì a vedere come questo fenomeno si soggettiva. Questa angoscia indotta nell’osservatore getta le basi per aprirsi a se stessi in maniera autentica senza rifugiarsi nel Si impersonale descritto da Heidegger, dando la possibilità di poter incontrare la persona che sta facendo esperienza dell’allucinazione. Siamo abituati ad incontrare le persone e a scambiare con queste, parole, ma in questo caso ci si deve limitare a fare da sfondo come il restante mondo percepibile, divenendo interlocutore tra il mondo e la negazione dello stesso; la necessità del silenzio talvolta diventa obbligo e stare lì a vedere quella persona fuori contesto che si dà da fare con qualcosa che non riconosciamo ci lascia nello sgomento, ma la nostra attenzione deve essere lì, presso ciò che non è visibile, quel buco nero da cui tutto prende forma e vita, assumendo quella consistenza come qualsiasi cosa riesce ad essere colta tramite le sensazioni. Lo sguardo è sospeso verso qualcosa che pur non essendoci da lì a poco prenderà vita e da cui il soggetto non riesce a sottrarsi, occupandolo totalmente, non lasciando altro posto per chi è lì ad assistere che fare da sfondo non partecipante se non in alcune sfumature in cui l’attenzione si sottrae da quell’affascinante e totalizzante sensazione da cui è catturato; questo, come si diceva prima, induce angoscia, grazie alla quale, se non si scappa e la si vive, apre lo spazio con un incontro dove dal nulla può emergere qualcosa.
Partecipare a questa esperienza lascia intravedere quel qualcosa che può accadere in noi di non condivisibile, che sembra non appartenere all’universo degli utilizzabili di cui ci si prende cura, come un processo intuitivo messo in scena, che travalica, che emerge, assumendo una forma che espressa finisce per essere incompresa. È come se questa folgorazione intuitiva, non rivelandosi in aderenza con la realtà delle percezioni, restasse una presentificazione, e allo stesso tempo non riuscisse a farsi contenere da quella barriera dei sensi che oltre a permetterci di conoscere il mondo ci contiene in esso.
“L’allucinazione, formalmente considerata, è un eloquente esempio del disturbo dell’articolazione intenzione-compimento; siamo abituati a intenderla come una percezione senza oggetto; in termini husserliani e, soprattutto, con una visione più profonda del fatto, si direbbe che essa è un intenzione di significato senza compimento del significato stesso o, meglio, con un compimento di significato che non si compie, più o meno adeguatamente, nell’oggetto ma resta nel soggetto” (B. Callieri, 2001: 121)
La sig.ra Giovanna mi chiamò per poter seguire il figlio Luca, un soggetto che presentava un delirio paranoideo con allucinazioni uditive e visive; l’incontro avvenne presso la propria abitazione, una villetta plurifamiliare un po’ decentrata. Luca, un soggetto ben vestito e curato nell’aspetto, abbastanza in sovrappeso, non voleva incontrarmi ma comunque mi concesse il piacere di ascoltarlo; ci sedemmo nel salone, la madre ci portò un caffè lasciandoci poi soli con la porta chiusa, mi raccontò delle difficoltà che aveva nel trovare un lavoro, riferendomi che aveva lavorato e che poi per un motivo o per un altro i contratti terminavano e non gli venivano più rinnovati; nel frattempo che il discorso si sviluppava trovavano posto racconti che avevano per tema il proprio delirio, lo lasciavo parlare senza perdere l’attenzione, ponendomi in una posizione di riguardo, prendevano così spazio dei silenzi che lui cercava di riempire, fumando qualche sigaretta, con frasi quali “ma tu hai capito”, “non si può stare senza lavorare”; all’improvviso venne attratto da qualcosa che non riuscivo a cogliere, guardava in alto, si girava intorno e restando fermo sulla sedia iniziò a dire con concitazione in dialetto napoletano: “ma nemmeno la vuoi finire, a chi spari, ora vengo lì e ti butto giù (pausa). Non ho capito a chi mi mandi, io vi ammazzo a tutte e due”. Poi rivolgendosi a me disse: “Hai visto che succede, questo se ne deve andare da qui, io l’ho detto a mia madre, lo deve far sfrattare, la casa mi serve”. Tale evidenza ci fa cogliere il suo esser presso una presenza, che gli diceva qualcosa e con la quale aveva una discussione, una presenza non collocabile in un determinato punto dello spazio, fuori dal comune spazio percettivo, che lo animava, permettendomi di rilevare una scena, un monologo, diverso dal pensare ad alta voce; poi, dallo sfondo che rappresentavo, divenni l’interlocutore che avrebbe dovuto vedere.
Marco è un ragazzo che seguo da anni, gli incontri anche in questo caso avvengono a casa sua. La casa è cupa e tutto appare fermo, dagli orologi che non funzionano, gli oggetti disposti in maniera casuale, tabacco sparso per terra, cicche gettate dappertutto; passiamo interi incontri nel silenzio più totale, dove talvolta la madre irrompe, inquinando l’atmosfera, creando interruzioni ad un fragile istaurarsi dell’incontro, nonostante le viene sempre ripetuto di lasciare a noi quello spazio in quel tempo; in questo scenario è da anni che si ripete il nostro settimanale incontro, che con il tempo si sta riempiendo anche di contenuti verbali, oltremodo mi ha permesso di assistere a diversi mutamenti, non lineari, verso una maggiore aderenza al con-Esserci. Negli incontri silenziosi, luì è lì, fermo sul divano, su un letto o su una sedia, non dice nulla e non risponde qualora gli pongo un quesito, apre e chiude gli occhi rapidamente, mantiene una posizione pressoché statuaria, sembrerebbe inanimato se non fosse per gli occhi, poi improvvisamene si alza per prendere una sigaretta o cartina e tabacco e, direi, in maniera grossolana se la prepara; mentre fuma si accende un’altra sigaretta, oppure spegne le luci, toglie le lampadine, oppure prende la spugnetta e pulisce vicino al muro o sul tavolo, oppure accende la radio poi la spegne e la riaccende, oppure accende la tv, oppure prende l’acqua, un po’ la beve e n po’ la butta a terra o sui mobili. Proprio in uno di questi incontri, dopo circa due anni, mentre la televisione accesa stava trasmettendo una pubblicità della Kinder, dove ad un tratto sullo scatolo bianco prende forma la confezione colorata delle merendine, lui si alza all’improvviso mi raggiunge con un fare sorpreso e dandomi una pacca sulla spalla mi dice: “pure quello vede i mostri”. Non ero mai riuscito a farmi dare notizie sulle cose che si presentificava nei lunghi silenzi intervallati da movimenti nello spazio, ma quella fu la sintesi migliore che mi potesse dare, e come se avesse trovato in ciò che la pubblicità stava trasmettendo il modo attraverso cui poter dare l’annuncio, e permettermi di condividere un’esperienza di cui non riusciva a trovare il modo; quindi diveniva l’occasione per rendere lo sfondo, l’interlocutore appunto, partecipe di ciò che lo sottraeva da altri contatti.
Ritrovarsi nelle situazioni appena descritte permette di volgere l’io verso un determinato fenomeno, lasciandolo rivelare, senza esser guidati da alcuna teoria e senza lasciarsi travolgere da pregiudizi, affinchè ci si possa lasciare investire dal fenomeno che nel tempo si mostra, tempo che permette pur sempre l’istaurarsi di una relazione anche verso quelle condizioni psicopatologiche definite psicosi.
L’allucinazione diviene, quindi, nell’accezione di un rapporto psicoterapeutico, anche modo attraverso cui l’altro si lascia vedere, perdendo il proprio valore di sintomo per divenire tema da cui e per cui individuare le innumerevoli possibilità di un rapporto, di una relazione, affinchè si possano edificare le condizioni di un poter essere-nel-mondo.